Il commercio internazionale riveste un ruolo fondamentale per l’economia italiana. L’Italia è il quarto Paese al mondo per volumi di esportazioni, insieme a Giappone e Corea del Sud ed è il dodicesimo Paese per importazioni, nella classifica degli scambi mondiali. Attualmente l’export italiano vale circa il 40% del PIL nazionale e si conferma come un decisivo fattore di traino per la nostra economia e la bilancia dei pagamenti: il valore delle esportazioni registra un +3,7% nel 2024, con una crescita attesa del +4,5% nel 2025 e del +4,2% in media nel biennio successivo. L’export italiano supererà i 650 miliardi nel 2024, mentre il prossimo anno raggiungerà i 679 miliardi.
Nell’ultimo triennio, l’export italiano è cresciuto di più rispetto agli altri Paesi europei.
Dal punto di vista numerico, sono 120.876 le imprese esportatrici, mentre 95.774 sono le imprese importatrici. Nonostante questi numeri significativi, però, sono soltanto 1.705 le imprese, in Italia, che hanno ottenuto la certificazione come Operatori economici autorizzati (AEO) dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli, un numero inferiore rispetto ad altri Paesi UE, come la Germania, dove sono 6.301 le imprese in possesso di questa importante autorizzazione, rilasciata alle imprese che operano con l’estero, in presenza di particolari standard di affidabilità e di competenza.
Questo gap è dovuto a:
- la struttura del nostro export, a cui partecipano anche molte medie e piccole imprese, con minore propensione a dotarsi di un’organizzazione interna specializzata;
- sottovalutazione della specificità del commercio internazionale, con l’idea di fondo secondo cui vendere all’estero equivale a saper vendere nel mercato nazionale;
- carenza di specializzazione nella formazione scolastica e universitaria rispetto a questo settore;
- assenza di cultura del commercio internazionale, che non include questi temi dall’elaborazione delle strategie aziendali;
- assenza di visione globale all’interno delle imprese, per cui le tematiche spesso ricadono in funzioni aziendali molto diversificate;
- percezione dell’assenza di significativi vantaggi derivanti dall’autorizzazione AEO.
Il contesto attuale è dominato dalla crescente segmentazione dell’economia internazionale, con nuovi dazi, sanzioni e altre barriere all’entrata.
Di grande impatto è il deterioramento della situazione geopolitica, con la guerra russo-ucraina entrata ormai nel terzo anno e il conflitto in Medio Oriente, con le crescenti tensioni internazionali e i riflessi sulla sicurezza nel Canale di Suez, che modificano le rotte marittime e incrementano tempi e costi degli scambi tra Europa e Asia.
La frammentazione in grandi blocchi di influenza, con il rafforzamento dei Paesi Brics e la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, contribuiscono a incrementare i fattori di incertezza e instabilità e sono tra le cause della crisi del modello multilaterale, fondato sul WTO.
Le misure restrittive del commercio internazionale sono aumentate di 3,5 volte rispetto al periodo pre-pandemico, anche in conseguenza delle sanzioni adottate dai Paesi Nato a seguito dell’invasione dell’Ucraina.
Le misure protezionistiche, nel 2024, sono state 2.808, tra dazi, sanzioni e quote. Un dato significativo, che evidenzia una nuova tendenza alla deglobalizzazione.
A seguito dell’invasione dell’Ucraina, l’Unione europea ha adottato quattordici diversi pacchetti di sanzioni (alla data del 15 novembre 2024) nei confronti della Russia, vietando l’importazione e l’esportazione di numerosi prodotti.
Oltre alle misure restrittive aumentano anche le barriere alla frontiera, a tutela dei mercati interni. Secondo i dati elaborati dal WTO, da ottobre 2023 a maggio 2024 sono state adottate ben 205 misure di difesa commerciale, pari al 43% di tutte le misure commerciali registrate.
L’antidumping continua a essere lo strumento più utilizzato e rappresenta il 70,3% delle misure avviate e il 93,9% di quelle concluse. Le inchieste avviate dai Paesi WTO nel periodo in esame interessano scambi commerciali per 56 miliardi di dollari.
Le crescenti tensioni geopolitiche e le misure protezionistiche in aumento hanno stimolato il friend shoring.
Se è vero che i dati del commercio internazionale in percentuale del PIL mondiale non registrano risultati negativi in termini assoluti, si è tuttavia ridotto il volume degli scambi tra blocchi in competizione tra loro, che è stato compensato da un incremento dei traffici all’interno di blocchi di Paesi “allineati”, come ha rilevato il Fondo monetario internazionale (FMI), nel World Economic Outlook di ottobre 2024.
La guerra commerciale in atto tra Stati Uniti e Cina ha diviso il mondo in due grandi blocchi. L’analisi del FMI prende in considerazione i Paesi alleati di Stati Uniti e Unione europea, quelli orientati verso Cina e Russia e un insieme di Paesi non allineati.
Confrontando le medie dei periodi 2017-2022 e 2022-2024, si osserva che l’interscambio di beni è diminuito di circa 2,5 punti percentuali in più tra blocchi geopoliticamente distanti rispetto a quanto si è registrato negli scambi tra Paesi appartenenti allo stesso gruppo.
Secondo il Fondo monetario internazionale, a partire dalla guerra russo-ucraina, stiamo assistendo a una fase di instabilità del commercio internazionale molto simile a quella registrata nei primi anni della Guerra fredda. Con una differenza significativa: se all’inizio della Guerra Fredda, il valore del commercio di beni sul PIL era del 16%, ora il rapporto è del 45%. Inoltre, mentre allora i Paesi stavano eliminando le restrizioni commerciali all’interno dei blocchi, l’economia globale è ora caratterizzata da una fase di crescente protezionismo.
Il Presidente eletto Donald Trump ha previsto nel proprio programma elettorale l’introduzione di nuovi dazi USA sui prodotti europei, tra il 10 e il 20%, in aggiunta ai dazi già esistenti. Nei confronti della Cina, sono stati annunciati nuovi dazi del 60% e del 100% per le auto. Per valutare l’impatto delle annunciate tariffe, occorre tenere conto che gli Stati Uniti rappresentano il primo mercato di destinazione dell’export italiano, per una quota pari al 10,4 % delle nostre esportazioni.
La bilancia commerciale è decisamente a nostro favore: nel primo semestre 2024, il valore delle nostre esportazioni verso gli USA, ha raggiunto i 38,82 miliardi di euro, mentre le importazioni hanno raggiunto il valore di 15,46 miliardi di euro.
Una nuova guerra commerciale penalizzerebbe, quindi, molto di più il nostro export rispetto all’economia USA. Nel primo mandato dell’amministrazione Trump, a partire dal marzo 2018, sono stati introdotte tariffe aggiuntive su molte eccellenze del nostro export, come vino, olio, pasta, formaggi Made in Italy, oltre ad acciaio e alluminio, a cui l’Europa ha risposto imponendo un incremento delle tariffe su prodotti agricoli, motociclette e bourbon.
L’amministrazione Biden ha mantenuto tutte le barriere all’importazione e ha impresso una spinta al reshoring, con politiche di forti aiuti economici statali alla produzione “made in USA”, attraverso l’Inflaction Reduction Act.
L’esito delle recenti elezioni USA segna una nuova fase di guerra dei dazi.
Il presidente USA Donald Trump, che si insedierà a gennaio 2025, ha già annunciato di voler introdurre nuovi dazi sui prodotti europei, tra il 10 e il 20%, oltre a dazi del 60% sulle importazioni dalla Cina.
Tra i primi studi economici ad aver valutato l’impatto dei dazi preannunciati da Trump, il National Board of Trade svedese ha stimato, per l’Italia, minori esportazioni verso gli USA del 16% e una generale riduzione delle esportazioni europee del 17%, con impatto principalmente nei settori meccanico, farmaceutico e chimico.
Lo studio prevede che le nuove tariffe ridurranno l’interscambio commerciale tra USA e Unione europea, mentre la Cina ridurrà le esportazioni verso gli USA del 66% e incrementerà le esportazioni verso l’Europa del 7%
Secondo le stime condotte da Prometeia, se l’aumento del 10% delle tariffe interesserà soltanto i prodotti già sottoposti a dazio, per l’Italia il costo aggiuntivo del nuovo protezionismo americano supererà i 4 miliardi di dollari. Dal punto di vista settoriale, in questo scenario a essere maggiormente colpito sarà il sistema moda, già oggi insieme all’agroalimentare uno dei più esposti del made in Italy.
Se Trump optasse, invece, per un aumento delle tariffe generalizzato per tutti i beni esportati, i costi per le imprese italiane supererebbero i 9 miliardi, 7 in più rispetto al 2023. Nell’ipotesi di un aumento generalizzato dei dazi USA, sarebbe la meccanica a subire più negativamente le conseguenze del nuovo protezionismo.
Secondo lo studio condotto dalla Grantham Foundation, scomponendo l’export italiano, i settori più colpiti saranno: attrezzature per il trasporto, prodotti chimici, ferro e acciaio e macchinari.
I nuovi dazi USA rappresentano uno degli strumenti più importanti del “Trump reciprocal trade act”, il cui obiettivo è riequilibrare il commercio tra gli Stati Uniti e i suoi partner commerciali. L’introduzione di nuove restrizioni sui prodotti europei potrebbe portare a una nuova guerra commerciale, con analoghe misure di ritorsione da parte dell’Unione europea e conseguenze significative sulle catene di approvvigionamento in tutto il mondo.
Le previsioni per l’export italiano restano, però, positive, grazie alla crescita nei Paesi del Golfo e in Nord America. I dati di ICE evidenziano che gli Stati Uniti restano il primo mercato di destinazione extra-UE, ma l’export offre un ventaglio vastissimo di opportunità, soprattutto per un Paese come il nostro che ha il tasso di differenziazione delle merci che esporta più alto al mondo. Tra i mercati più interessanti per il nostro made in Italy vi sono Emirati Arabi e Arabia Saudita che crescono a doppia cifra, oltre a Turchia, Brasile, India e Messico. Negli ultimi sette mesi, secondo ICE, il tasso di crescita è del +21,9% per gli Emirati Arabi, del +29% per l’Arabia Saudita, + 24,7% per la Turchia,+12,8% per la Corea Sud, +19% per la Serbia, +26% per la Libia, +19% per l’Ucraina, +35% per il Vietnam, +23% per la Malesia, +17% per il Kazakistan. La somma dell’export di questi Paesi è di oltre 25 miliardi di dollari, contro i 35 che esportiamo negli Stati Uniti.
Secondo il direttore di ICE Maurizio Forte, questa dinamica è il risultato della ricerca e della tecnologia applicata: l’Italia è campione di export nei macchinari (101 miliardi di euro nel 2023, pari al 16% del totale). Nel dualismo Stati Uniti-Cina, oggi l’alternativa è rafforzare la capacità di proiezione internazionale dell’Europa, in cui l’Italia può esprimersi da leader (siamo il terzo esportatore europeo), concentrando gli investimenti su promozione commerciale, sostenibilità e innovazione.