Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sezione I, sentenza 7/11/2024, causa C-503/23 – Pres. f.f. von Danwitz, Rel. Ziemele – Centro di Assistenza Doganale (Cad) X S.r.l. c/ Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e altro
Codice doganale dell’Unione – Articolo 18 – Rappresentante doganale – Libera prestazione dei servizi – Direttiva 2006/123/CE – Articoli 10 e 15 – Centri di assistenza doganale – Limitazione territoriale dell’attività – Restrizione – Presupposti
L’articolo 18, paragrafo 3, del codice doganale dell’Unione deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale la quale limiti l’esercizio dell’attività dei rappresentanti doganali organizzati nella forma di una società di capitali avente come oggetto sociale esclusivo la prestazione di servizi di assistenza doganale all’ambito territoriale del compartimento doganale in cui tale società ha sede, a condizione che detta normativa sia conforme al diritto dell’Unione.
L’articolo 15, paragrafi 2 e 3, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale la quale, per garantire l’efficacia dei controlli doganali, al fine di prevenire le frodi doganali e di tutelare i destinatari dei servizi di assistenza doganale, limiti l’esercizio dell’attività dei rappresentanti doganali organizzati nella forma di una società di capitali avente come oggetto sociale esclusivo la prestazione di servizi di assistenza doganale all’ambito territoriale del compartimento doganale in cui tale società ha sede, nella misura in cui una siffatta limitazione territoriale non sia applicata in modo coerente e l’obiettivo di garantire l’efficacia di detti controlli possa essere conseguito mediante misure meno restrittive.
La questione sottoposta alla Corte concerneva un Centro di Assistenza Doganale autorizzato a tal fine dalla Direzione territoriale dell’Agenzia delle Dogane competente in base alla sede legale del CAD, che dispone, in tale compartimento doganale, di locali approvati che gli consentono di procedere alle operazioni doganali su merci senza dover farle passare in dogana o nei locali dell’importatore.
Nel corso dell’anno 2021, esso ha concluso un contratto con la società tedesca ALFA per l’emissione di bollette doganali di importazione e di esportazione da/verso il Regno Unito.
Ai fini della realizzazione delle operazioni di importazione e di esportazione delle merci della società ALFA, il CAD ha stipulato un contratto con la società BETA che dispone di un deposito in una regione italiana al di fuori dell’ambito territoriale del compartimento doganale in cui ha sede il CAD. Quest’ultimo ha, di conseguenza, richiesto alle autorità doganali competenti l’autorizzazione per tali locali.
Tale domanda è stata respinta con la motivazione che l’articolo 3, comma 3, del decreto ministeriale n. 549/1992 non consente ai CAD di svolgere la propria attività al di fuori del compartimento doganale in cui hanno la sede; tale diniego è stato impugnato innanzi al T.A.R., che ha investito la Corte di Giustizia di alcune questioni pregiudiziali.
Con la prima questione, il giudice del rinvio ha chiesto, in sostanza, se l’articolo 18, paragrafo 3, del codice doganale dovesse essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che limiti l’esercizio dell’attività dei rappresentanti doganali organizzati nella forma di una società di capitali avente come oggetto sociale esclusivo la prestazione di servizi di assistenza doganale all’ambito territoriale del compartimento doganale in cui tale società ha sede.
Nel rispondere nel senso di cui alla massima, la Corte ha rilevato che l’articolo 18, paragrafo 3, prima frase, del codice doganale, consente agli Stati membri di fissare, conformemente al diritto dell’Unione, le condizioni alle quali un rappresentante doganale può prestare servizi nello Stato membro in cui è stabilito.
Nel caso di specie, l’articolo 3, comma 3, del decreto ministeriale n. 549/1992 enuncia una condizione applicabile ai CAD, che limita la loro attività all’ambito territoriale del compartimento doganale in cui essi hanno sede. In tal modo, l’Italia ha esercitato la facoltà riconosciutale dall’articolo 18, paragrafo 3, prima frase, di detto codice di fissare le condizioni alle quali i rappresentanti doganali organizzati in forma di società di capitali stabilite nel territorio di tale Stato membro possono prestare servizi in tale territorio.
Con la seconda e la terza questione il giudice del rinvio ha poi chiesto di chiarire se gli articoli 10 e 15 della direttiva 2006/123 nonché gli articoli da 56 a 62 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) dovessero essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale la quale limiti l’esercizio dell’attività dei rappresentanti doganali organizzati nella forma di una società di capitali avente come oggetto sociale esclusivo la prestazione di servizi di assistenza doganale all’ambito territoriale del compartimento doganale in cui tale società ha sede.
La Corte ha premesso che, alla luce dell’armonizzazione derivante dalla Direttiva citata, la fattispecie concreta doveva essere oggetto di esame alla luce della Direttiva stessa e non anche delle generali disposizioni del TFUE, poiché si sarebbe rimessa in discussione proprio tale armonizzazione.
Ciò posto, la Corte ha osservato che per il diritto italiano ai CAD non è consentito prestare i loro servizi al di fuori del compartimento doganale in cui hanno sede secondo le modalità da essi scelte.
Per essere ammessa, una siffatta restrizione deve però soddisfare le condizioni previste dall’articolo 15, paragrafo 3, della direttiva 2006/123, vale a dire deve essere applicabile senza discriminazioni basate sulla cittadinanza e deve essere necessaria e proporzionata agli obiettivi che persegue.
Di conseguenza, la restrizione che deriva dal requisito stabilito dall’articolo 3, comma 3, del decreto ministeriale n. 549/1992 è ammissibile, alla luce delle condizioni previste dal citato articolo 15, paragrafo 3, se la restrizione stessa non è direttamente o indirettamente discriminatoria in funzione della cittadinanza ovvero, ove si tratti di società, in funzione dell’ubicazione della loro sede legale, se essa è giustificata da un motivo imperativo di interesse generale e se è idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito, senza andare al di là di quanto è necessario per raggiungerlo, nella misura in cui non vi siano altre misure meno restrittive che permettano di conseguire lo stesso risultato.
Per quanto concerne, in primo luogo, il rispetto della condizione di non discriminazione, la Corte ha rilevato che il requisito previsto dall’articolo 3, comma 3, del decreto citato si applica senza discriminazioni in funzione della cittadinanza o dell’ubicazione della sede legale, dal momento che tale requisito deve essere soddisfatto da tutti i rappresentanti doganali che intendano utilizzare la procedura semplificata “del luogo approvato”, a prescindere dal fatto che siano stabiliti in Italia o in altro Stato membro.
Per quanto riguarda, in secondo luogo, la questione se la misura restrittiva in discorso sia giustificata da un motivo imperativo di interesse generale, ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 3, lettera b), della direttiva 2006/123, la Corte ha osservato che tale motivo è stato indicato dal governo italiano nell’esigenza di garantire l’efficacia dei controlli doganali, al fine di prevenire le frodi doganali e di tutelare i destinatari dei servizi di assistenza doganale.
A tale riguardo, la Corte ha osservato che, ai sensi dell’articolo 4, punto 8, della Direttiva 2006/123, letto alla luce del “considerando 40” della stessa, la tutela dei destinatari dei servizi e la prevenzione delle frodi costituiscono motivi imperativi di interesse generale idonei a giustificare restrizioni alla libertà di stabilimento.
Riguardo, in terzo luogo, alla questione se tale misura restrittiva sia conforme al principio di proporzionalità, come richiesto dall’articolo 15, paragrafo 3, lettera c), della Direttiva 2006/123, la Corte ha chiarito che occorre verificare se tale misura sia idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo perseguito, che essa non ecceda quanto è necessario per conseguirlo e che non esistano misure meno lesive della libertà in questione.
Secondo la Corte, la normativa italiana di cui trattasi non sembra garantire che l’ufficio doganale territorialmente competente a controllare un CAD sia l’ufficio più vicino al luogo approvato in cui tale CAD è autorizzato a esercitare le sue attività.
Inoltre, ai sensi dell’articolo 47, comma 3, del d.P.R. n. 43/1973, gli spedizionieri doganali possono presentare dichiarazioni doganali in tutto il territorio italiano mentre, prima della sua modifica, tale disposizione prevedeva per gli spedizionieri doganali una limitazione territoriale identica a quella applicabile ai CAD.
Tenuto conto di tale differenza di trattamento tra gli spedizionieri doganali e i CAD, la Corte ha concluso che la limitazione territoriale risultante dall’articolo 3, comma 3, del decreto ministeriale n. 549/1992, che è applicabile solo ai CAD, non appare idonea a garantire la realizzazione degli obiettivi perseguiti, in quanto non risponde realmente all’intento di raggiungerli in modo coerente e sistematico.
Il governo italiano ha rilevato, in tale contesto, che gli spedizionieri doganali non possono beneficiare della procedura doganale semplificata “del luogo approvato”, essendo essi costretti ad espletare le formalità doganali nei locali dei loro clienti, ma per la Corte ciò non toglie che il vantaggio derivante da tale procedura consiste nel fatto che le merci non devono essere presentate fisicamente nei locali delle autorità doganali. Orbene, gli spedizionieri doganali paiono anch’essi beneficiare di un siffatto vantaggio poiché possono sottoporre le merci alle formalità doganali presso i locali dei loro clienti.
In secondo luogo, per quanto riguarda la questione se la misura restrittiva in parola ecceda quanto è necessario per realizzare l’obiettivo perseguito, vietando ai CAD di utilizzare “luoghi approvati” situati nell’ambito territoriale di un compartimento doganale diverso da quello in cui essi hanno sede, sono ipotizzabili misure meno restrittive della limitazione territoriale risultante dall’articolo 3, comma 3, del decreto ministeriale n. 549/1992 per garantire l’efficacia dei controlli doganali, al fine di prevenire le frodi doganali e di tutelare i destinatari dei servizi di assistenza doganale.
Più in concreto, la Corte ha affermato che spetta al giudice del rinvio valutare se lo scambio tra gli uffici doganali delle informazioni necessarie per i controlli sulle formalità doganali espletate dai CAD, previsto dall’articolo 8, comma 3, del decreto ministeriale n. 549/1992, consentirebbe di raggiungere lo stesso risultato della misura restrittiva in discorso, costituendo al contempo una misura meno lesiva della libera prestazione dei servizi rispetto alla disposizione controversa.
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sezione IX, sentenza 4/10/2024, causa C-412/22 – Pres. Spineanu-Matei, Rel. Rodin – Autoridade Tributária e Aduaneira c/ NT
Dumping – Importazioni di determinati elementi di fissaggio in ferro o acciaio originari della Repubblica popolare cinese – Importazioni di determinati elementi di fissaggio in ferro o acciaio spediti dalla Malaysia – Regolamento di esecuzione (UE) 2016/278 – Abrogazione dei dazi antidumping istituiti dal regolamento (CE) n. 91/2009 – Data in cui tale abrogazione ha effetto – Importazioni anteriori a tale data – Recupero a posteriori di dazi antidumping – Legittimità
L’articolo 2 del regolamento di esecuzione (UE) 2016/278 della Commissione, del 26 febbraio 2016, che abroga il dazio antidumping definitivo istituito sulle importazioni di determinati elementi di fissaggio in ferro o acciaio originari della Repubblica popolare cinese, esteso alle importazioni di determinati elementi di fissaggio in ferro o acciaio spediti dalla Malaysia, indipendentemente dal fatto che siano dichiarati o no originari della Malaysia, deve essere interpretato nel senso che l’abrogazione dei dazi antidumping da esso operata non osta a che si proceda, nell’ambito di un recupero a posteriori effettuato dopo la data di entrata in vigore di tale regolamento, alla riscossione di tali dazi antidumping e, se del caso, di altri dazi ad essi relativi, nei confronti di importazioni di prodotti assoggettati a detti dazi antidumping realizzate prima di tale data.
A seguito di un’indagine condotta dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) e dalle autorità malesi su richiesta dell’OLAF relativa al trasbordo attraverso la Malaysia di merci provenienti dalla Cina, al fine di evitare il pagamento dei dazi antidumping, comunicata agli Stati membri nell’ambito del meccanismo di assistenza reciproca, si è constatato che elementi di fissaggio in acciaio, esportati nell’Unione nel 2010, erano di origine non preferenziale cinese.
La società di diritto portoghese Inemer Lda. è stata identificata come il destinatario (importatore) di dette merci. Le dichiarazioni di importazione di cui trattasi, del 2010, erano state presentate secondo la modalità della rappresentanza indiretta da parte di NT per conto della Inemer, in qualità di titolare del regime.
In tali dichiarazioni era indicato che le merci importate erano di origine malese, cosicché in tale fase non è stato riscosso alcun dazio.
Avendo constatato, nell’ambito di un procedimento di controllo, false dichiarazioni di origine, relative alla Malaysia anziché alla Cina, l’amministrazione doganale ha ritenuto, da un lato, che le importazioni interessate non beneficiassero delle misure tariffarie preferenziali e, dall’altro, che occorresse applicare il regolamento n. 91/2009 che, alla data di accettazione delle dichiarazioni di importazione in questione, prevedeva l’applicazione di un dazio antidumping definitivo su tali merci originarie della Cina: di conseguenza, venivano recuperati a posteriori dazi antidumping, dazi convenzionali, IVA e interessi compensativi nei confronti della Inemer e della NT in quanto debitori in solido.
NT impugnava l’atto di recupero sostenendo che, dopo l’abrogazione del regolamento n. 91/2009, come effettuata dagli articoli 1 e 2 del regolamento di abrogazione, non potevano più essere imposti dazi antidumping sulla base di questo primo regolamento. Il giudice adito ha ritenuto allora opportuno investire la Corte di alcune questioni pregiudiziali, con cui ha chiesto, in sostanza, se l’abrogazione dei dazi antidumping istituiti dal regolamento n. 91/2009, operata all’articolo 2 del regolamento di abrogazione, comportasse l’impossibilità di riscuotere tali dazi nell’ambito di un recupero a posteriori.
Nel rispondere nel senso di cui alla massima che precede, la Corte ha osservato che, ai sensi dell’articolo 2 del regolamento di abrogazione, l’abrogazione dei dazi antidumping di cui all’articolo 1 di quest’ultimo, tra cui quelli istituiti dal regolamento n. 91/2009, decorreva dalla data di entrata in vigore del medesimo regolamento e non consentiva il rimborso dei dazi riscossi prima di tale data.
Da tale formulazione non risulta che l’abrogazione dei dazi antidumping prevista all’articolo 1 di tale regolamento si applichi retroattivamente. Al contrario, l’articolo 2 del regolamento di abrogazione – afferma la Corte – prevede la scadenza di tali dazi a decorrere dalla data della sua entrata in vigore ed esclude qualsiasi effetto retroattivo.
In particolare, la precisazione contenuta in tale articolo 2, secondo la quale l’abrogazione dei dazi antidumping di cui trattasi non consente il rimborso dei dazi riscossi prima dell’entrata in vigore di tale regolamento, non può per la Corte essere intesa nel senso che essa pone un’eccezione unica ad un effetto retroattivo di tale abrogazione. Infatti, tale precisazione conferma l’assenza di retroattività.
D’altro canto, l’abrogazione di un atto dell’Unione da parte del suo autore, come effettuata dal regolamento di abrogazione per quanto riguarda il regolamento n. 91/2009, ad avviso della Corte non può essere assimilata a un accertamento dell’illegittimità di tale atto avente effetti ex tunc, poiché una siffatta abrogazione produce effetti solo per il futuro.
Infatti, la validità del regolamento n. 91/2009 non può essere valutata alla luce degli accordi di cui agli allegati da 1 a 3 dell’accordo che istituisce l’OMC e, più in particolare, alla luce di tali decisioni del DSB.
Ne consegue che l’abrogazione, quale prevista agli articoli 1 e 2 del regolamento di abrogazione, dei dazi antidumping istituiti, in particolare, dal regolamento n. 91/2009 non può essere interpretata come un annullamento per illegittimità che inficia la validità di quest’ultimo regolamento e che potrebbe, a tale titolo, produrre effetti sull’applicazione di quest’ultimo ad importazioni anteriori all’entrata in vigore di tale abrogazione.
Di conseguenza, poiché l’abrogazione del regolamento n. 91/2009 produce effetti solo nei confronti delle importazioni effettuate a partire dalla data di entrata in vigore del regolamento di abrogazione, essa non può incidere sul sorgere di un’obbligazione doganale relativa ai dazi antidumping e ad altri dazi ad essa relativi a titolo di importazioni effettuate prima di tale data nella vigenza del regolamento n. 91/2009, né sul recupero a posteriori di tali dazi, nonostante il fatto che quest’ultimo regolamento non sia più in vigore al momento di tale recupero.
Per quanto riguarda la questione se le etichette di cui trattasi presentino “caratteristiche tecniche oggettive”, ai sensi di tale disposizione, che le rendono atte allo svolgimento di attività scientifiche, la Corte ha rilevato che, in forza dell’articolo 5, primo comma, del regolamento di esecuzione n. 1225/2011, le “caratteristiche tecniche oggettive” di uno strumento scientifico sono definite come “le caratteristiche risultanti dalla fabbricazione di tale strumento (…) o dagli adattamenti che ad esso sono stati apportati rispetto ad uno strumento (…) di tipo corrente, che gli consentono di realizzare prestazioni di alto livello, superiori a quelle normalmente richieste per usi industriali o commerciali”.
Nel caso di specie, pur se le etichette oggetto di importazione apparivano, in base agli atti di causa, atte ad essere utilizzate a fini scientifici, la Corte ha rilevato che esse non avevano caratteristiche risultanti dalla loro fabbricazione o dal loro adattamento che consentivano loro di realizzare prestazioni di alto livello superiori a quelle richieste per usi industriali o commerciali, potendo trovare un uso appropriato anche nell’ambito dell’acquacoltura o della pesca sportiva, a fini industriali o commerciali.
Già partner per oltre 12 anni in altro prestigioso studio legale tributario italiano, si occupa di diritto doganale e delle accise e di IVA, fornendo consulenza alle imprese ed assistenza innanzi alle autorità giudiziarie italiane e dell’Unione europea in caso di contenziosi.
E’ docente in corsi di formazione in materia doganale e processuale tributaria e dal 2008 al 2016 ha insegnato, quale aggiunto della materia “Legislazione e servizi in materia di dogane”, presso l’Accademia della Guardia di Finanza. Già docente a contratto di “Diritto doganale” presso alcune Università italiane, è autore di articoli, note a sentenze e monografie.