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Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sezione I, sentenza 5/9/2024, causa C-67/23 – Pres. Arabadjiev, Rel. Xuereb – S.Z. c/ Generalbundesanwalt beim Bundesgerichtshof e altro

 

Misure restrittive nei confronti della Birmania/Myanmar – Divieto di importazione di merci originarie o esportate dalla Birmania/Myanmar – Regolamento (CE) n. 194/2008, articolo 2, paragrafo 2, lettera a) – Tronchi di teak originari della Birmania/Myanmar esportati e lavorati a Taiwan prima del loro trasporto verso l’Unione europea – Articolo 24 del Codice doganale comunitario – Nozione di “trasformazione o lavorazione sostanziale” – Tronchi di teak sfrondati, scortecciati, squadrati o tagliati per ricavarne legno di teak segato a Taiwan – Certificato di origine rilasciato dalle autorità taiwanesi – Valore di tale certificato

L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), i), del regolamento (CE) n. 194/2008 del Consiglio, del 25 febbraio 2008, che proroga e intensifica le misure restrittive nei confronti della Birmania/Myanmar e abroga il regolamento (CE) n. 817/2006, in combinato disposto con l’articolo 24 del codice doganale comunitario, deve essere interpretato nel senso che:

  • lo sfrondamento, lo scortecciamento o la squadratura di tronchi di teak non costituiscono trasformazioni o lavorazioni che determinano l’origine delle merci ottenute a seguito di siffatte operazioni;
  • la trasformazione in legno segato di tronchi di teak costituisce una trasformazione o lavorazione che determina l’origine della merce ottenuta a seguito di siffatta operazione.

L’espressione “esportate dalla Birmania/Myanmar”, di cui all’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), ii), del regolamento n. 194/2008, deve essere interpretata nel senso che rientrano in tale disposizione soltanto merci importate nell’Unione europea direttamente dalla Birmania/Myanmar.

L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), i), del regolamento n. 194/2008 deve essere interpretato nel senso che quando le autorità doganali degli Stati membri verificano se tale disposizione sia stata violata, esse non sono vincolate da certificati di origine rilasciati da un paese terzo che indichino che le merci di cui trattasi sono originarie di detto paese.

 

Con sentenza del Tribunale del Land di Amburgo (Germania) del 27 aprile 2021, S.Z., amministratore unico di una società con sede ad Amburgo, è stato condannato per violazione dell’articolo 34, paragrafo 4, punto 2, della legge tedesca sul commercio estero ad un anno e nove mesi di reclusione e alla confisca di tronchi di alberi di teak e di una somma di EUR 3 310 902,98, corrispondente al valore dei proventi derivanti dalla violazione.

Su iniziativa di S.Z., la società interessata ha continuato ad importare e a commercializzare legno di teak dalla Birmania/Myanmar tra l’ottobre 2009 e il maggio 2011, vale a dire dopo l’entrata in vigore del regolamento n. 194/2008, che vietava l’importazione delle merci originarie o esportate dalla Birmania/Myanmar. Il fornitore di tale società, con sede a Taiwan, aveva tagliato alberi di teak in Birmania/Myanmar, aveva quindi trasportato i tronchi di tali alberi a Taiwan e li aveva lavorati in segherie.

Il Tribunale del Land ha constatato che tali tronchi erano stati oggetto di tre tipi di lavorazione a Taiwan. Alcuni di essi erano stati semplicemente sfrondati e scortecciati; altri erano stati sfrondati e scortecciati, poi squadrati, vale a dire tagliati in forma di parallelepipedi rettangoli; infine, alcuni tronchi erano stati tagliati in assi o in tavole, vale a dire in legno di teak segato. Dopo tali lavorazioni il legno, munito di certificati di origine taiwanesi, è stato trasportato via nave fino ad Amburgo, dove è stato preso in consegna dalla società interessata.

Lo stesso giudice ha ritenuto che il legno di teak di cui trattasi fosse, in conseguenza delle operazioni di lavorazione di cui era stato oggetto a Taiwan, originario di tale paese, cosicché non vi era stata violazione dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), i), del regolamento n. 194/2008, che vietava di importare merci originarie della Birmania/Myanmar. Ciò premesso, esso ha dichiarato che, nonostante il suo trasporto a Taiwan e i lavori di segatura di cui era stato ivi oggetto, tale legno di teak non aveva perso la qualità di “prodotto esportato” dalla Birmania/Myanmar, ai sensi del citato articolo 2, paragrafo 2, lettera a), ii), sicchè tale disposizione, recante il divieto di importare nell’Unione merci “esportate dalla Birmania/Myanmar”, era stata violata.

Avverso siffatta decisione, il Sig. S.Z. ha proposto appello e il giudice dell’impugnazione ha ritenuto necessario porre alla Corte di Giustizia dell’Unione europea tre questioni pregiudiziali.

Con la sua prima questione il giudice del rinvio ha chiesto, in sostanza, se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), i), del regolamento n. 194/2008, in combinato disposto con l’articolo 24 del codice doganale comunitario, debba essere interpretato nel senso che lo sfrondamento, lo scortecciamento, la squadratura o la trasformazione in legno segato di tronchi di teak costituiscano trasformazioni o lavorazioni che determinano l’origine delle merci ottenute a seguito di siffatte operazioni.

La Corte ha osservato che l’espressione “ultima trasformazione o lavorazione sostanziale” idonea a conferire l’origine, ai sensi dell’articolo 24 del codice doganale comunitario, deve essere intesa come riferita alla fase del processo di produzione nel corso della quale le merci in questione acquisiscono la loro destinazione d’uso nonché proprietà e composizione specifiche, che non possedevano in precedenza e per le quali non sono previste modifiche qualitative importanti in futuro: pertanto, operazioni che modificano l’aspetto esteriore del prodotto ai fini della sua successiva utilizzazione, lasciandone sostanzialmente inalterate, sotto il profilo qualitativo, le caratteristiche essenziali, non possono determinare l’origine del prodotto stesso.

Tanto premesso, la Corte ha osservato che solo per il terzo tipo di lavorazione, vale a dire il taglio di tronchi di teak in legno segato, tale taglio non costituisse un’operazione semplice di taglio, dal momento che esso comportava più fasi, in quanto i tronchi di cui trattasi dovevano essere stati sfrondati, scortecciati e squadrati prima di essere tagliati per ricavarne assi.

Inoltre, le merci risultanti da questo tipo di lavorazione si trovavano in una fase avanzata del processo di fabbricazione di merci destinate, come nel caso di specie, alla costruzione navale.

Su tali basi, la Corte ha affermato i principi di cui alla prima parte della massima riportata in corsivo.

Con la sua seconda questione il giudice del rinvio ha chiesto, in sostanza, se l’espressione “esportate dalla Birmania/Myanmar”, che compare all’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), ii), del regolamento n. 194/2008, debba essere interpretata nel senso che rientrano in tale disposizione soltanto merci importate nell’Unione direttamente dalla Birmania/Myanmar.

La Corte ha osservato che, per quanto riguarda il tenore letterale dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), ii), del regolamento n. 194/2008, l’espressione “esportate dalla Birmania/Myanmar” può includere, in mancanza di ulteriori precisazioni, prodotti importati sia direttamente sia indirettamente da tale paese.

Per quanto riguarda, invece, il contesto in cui si inserisce l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), del regolamento n. 194/2008, la Corte ha ricordato che tale disposizione contiene due divieti di importazione dalla Birmania/Myanmar, vale a dire, da un lato, quello di importare merci originarie di tale paese, contenuto in tale articolo 2, paragrafo 2, lettera a), i), e, dall’altro, quello di importare merci che sono state esportate da detto paese, contenuto nel citato articolo 2, paragrafo 2, lettera a), ii).

L’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), i), del regolamento n. 194/2008 mirava proprio a garantire che le merci “originarie della Birmania/Myanmar” rientrassero nell’ambito di applicazione di tale regolamento anche se importate nell’Unione non direttamente dalla Birmania/Myanmar, bensì attraverso paesi terzi. Orbene, tale disposizione sarebbe stata superflua – ha osservato la Corte – se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), ii), di tale regolamento avesse avuto quale obiettivo di far ricadere tutte le merci che si trovavano in un determinato momento in Birmania/Myanmar (vale a dire anche le merci che erano originarie della Birmania/Myanmar e che non lo sono più a causa di una trasformazione o di una lavorazione sostanziale in un paese terzo) nell’ambito di applicazione di quest’ultima disposizione.

In terzo luogo, la Corte ha escluso che l’intenzione del legislatore dell’Unione, quando ha adottato tale regolamento riguardante la Birmania/Myanmar, fosse di assoggettare al divieto di importazione di cui all’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), dello stesso tutte le merci provenienti da paesi terzi, prodotte a partire da merci provenienti dalla Birmania/Myanmar.

Con la sua terza questione il giudice del rinvio ha chiesto se l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), i), del regolamento n. 194/2008 debba essere interpretato nel senso che, quando le autorità doganali degli Stati membri verificano se tale disposizione sia stata violata, esse sono vincolate da certificati di origine rilasciati da un paese terzo da cui risulti che le merci di cui trattasi sono originarie di detto paese.

A tal riguardo la Corte ha rilevato che il regolamento n. 194/2008 non prevede alcun obbligo di produzione di un documento per comprovare l’origine delle merci cui tale regolamento si riferisce. L’articolo 2, paragrafo 3, di quest’ultimo dispone soltanto che l’origine delle merci è determinata conformemente alle disposizioni pertinenti del codice doganale comunitario, il cui art. 26 prevede che se l’origine delle merci deve essere comprovata mediante presentazione di un documento, la presentazione di detto documento non osta a che, in caso di seri dubbi, l’autorità doganale richieda qualsiasi altra prova complementare per accertarsi che l’origine indicata risponda alle regole stabilite in materia dalla normativa dell’Unione. A tal proposito, la Corte ha dichiarato che la finalità del controllo a posteriori è quella di verificare l’esattezza dell’origine indicata nel certificato d’origine sicché, anche qualora esista un obbligo di presentazione di un documento, quale un certificato di origine, per comprovare l’origine delle merci di cui trattasi, le autorità doganali non sono vincolate da tale documento. Ciò vale a maggior ragione quando un siffatto obbligo non sussiste.

Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sezione VI, sentenza 5/9/2024, causa C-344/23 – Pres. von Danwitz, Rel. Kumin – “BIOR” c/ Valsts ieņēmumu dienests

 

Tariffa doganale comune – Regolamento (CE) n. 1186/2009 – Franchigia dai dazi all’importazione – Articolo 46 – Etichette per la marcatura di pesci – Nozione di “strumento o apparecchio scientifico”

L’articolo 46, lettera a), del regolamento (CE) n. 1186/2009 del Consiglio, del 16 novembre 2009, relativo alla fissazione del regime comunitario delle franchigie doganali, deve essere interpretato nel senso che etichette rivestite di materia plastica o realizzate con astine di polietilene e che, in base alla loro progettazione tecnica e al loro funzionamento, servono, in quanto tali, da strumento di ricerca scientifica, essendo applicate a pesci vivi per monitorarne la migrazione e la crescita, non rientrano nella nozione di “strumenti scientifici”, ai sensi di tale disposizione.

Il BIOR, ricorrente nel procedimento principale, ha importato etichette del tipo «T-bar tag», «streamer tag», «Standard anchor t-bar tag» e «tagging applicators», ossia etichette rivestite di materia plastica o realizzate con astine di polietilene, destinate ad essere applicate ai pesci vivi, al fine di monitorarne la migrazione e la crescita nell’ambito di ricerche scientifiche; tali etichette erano state dichiarate nella sottovoce 3926 90 92 della NC in quanto “altri lavori di materie plastiche e lavori di altre materie delle voci da 3901 a 3914ottenuti da fogli”. Il BIOR ha sostenuto che tali etichette erano “strumenti o apparecchi scientifici” importati esclusivamente per scopi non commerciali. Considerata tale classificazione, dette etichette sono state esentate dai dazi doganali.

In seguito, l’amministrazione tributaria ha classificato le etichette di cui trattasi nella sottovoce 3926 90 97 della NC come “altri lavori di materie plastiche e lavori di altre materie delle voci da 3901 a 3914…non ottenuti da fogli”, assoggettati ad un’aliquota di dazio doganale del 6,5%, in quanto tali etichette non potevano essere considerate “strumenti o apparecchi scientifici”, ai sensi dell’articolo 46, lettera a), del regolamento n. 1186/2009, poiché esse erano destinate alla marcatura dell’oggetto dello studio scientifico, rendendo possibile la raccolta di informazioni necessarie per la ricerca, ma non a svolgere operazioni specifiche normalmente effettuate con strumenti. Conseguentemente, è stato recuperato il maggior dazio; BIOR ha proposto ricorso.

Il giudice adito ha posto alla Corte di Giustizia una questione pregiudiziale per sapere, in sostanza, se l’articolo 46, lettera a), del regolamento n. 1186/2009 dovesse essere interpretato nel senso che le etichette rivestite di materia plastica o realizzate con astine di polietilene, e che, in base alla loro progettazione tecnica e al loro funzionamento, servono, in quanto tali, come utensile di ricerca scientifica, in quanto apposte a pesci vivi al fine di monitorarne la migrazione e la crescita, rientrassero nella nozione di “strumenti” o di “apparecchi”, che possono essere definiti “scientifici” ai sensi di tale disposizione.

Nel rispondere negativamente al quesito, la Corte ha osservato che, ai sensi dell’articolo 46, lettera a), del regolamento n. 1186/2009, uno “strumento o apparecchio” può essere definito “scientifico” quando, “per le sue caratteristiche tecniche oggettive e i risultati che consente di ottenere”, è “esclusivamente o principalmente atto allo svolgimento di attività scientifiche”.

In primo luogo, dunque, la Corte ha verificato se le etichette di cui trattasi potessero essere definite “strumento” o “apparecchio”, ai sensi di tale disposizione.

Poichè né il regolamento n. 1186/2009 né il regolamento di esecuzione n. 1225/2011 forniscono una definizione della nozione di “strumento” o di “apparecchio” né, a tal riguardo, rinviano al diritto nazionale, la Corte si è richiamata al linguaggio corrente: nel caso di specie, da un lato, secondo il suo significato abituale, la nozione di “apparecchio” è intesa come un assemblaggio di pezzi destinati a funzionare insieme o un insieme di elementi tecnici organizzati in un insieme più completo di un utensile e che ha una funzione, nozione in cui non apparivano rientrare le etichette oggetto di causa; dall’altro lato, la nozione di “strumento” designa, secondo il suo significato abituale nel linguaggio corrente, un utensile o un manufatto che consente di eseguire un’operazione o un lavoro. Pertanto, tale nozione è sufficientemente ampia da poter comprendere le etichette in parola, che sono utensili o manufatti che servono a marcare pesci vivi.

Il termine “strumento”, quando deve essere qualificato come “scientifico”, può essere inteso nel senso che comprende non solo gli utensili e gli oggetti fabbricati per realizzare un’attività specifica, ma anche il materiale che, in base alla propria progettazione tecnica e al proprio funzionamento, è destinato a servire da strumento di ricerca scientifica, come nel caso – ha concluso la Corte – delle etichette di cui trattasi, che sono applicate a pesci vivi, per monitorarne la migrazione e la crescita.

Ciò posto, per poter essere definite “strumenti scientifici”, ai sensi dell’articolo 46, lettera a), del regolamento n. 1186/2009, tali etichette, in considerazione delle loro caratteristiche tecniche oggettive e dei risultati che consentono di ottenere, dovrebbero essere però esclusivamente o principalmente atte allo svolgimento di attività scientifiche.

Per quanto riguarda la questione se le etichette di cui trattasi presentino “caratteristiche tecniche oggettive”, ai sensi di tale disposizione, che le rendono atte allo svolgimento di attività scientifiche, la Corte ha rilevato che, in forza dell’articolo 5, primo comma, del regolamento di esecuzione n. 1225/2011, le “caratteristiche tecniche oggettive” di uno strumento scientifico sono definite come “le caratteristiche risultanti dalla fabbricazione di tale strumento (…) o dagli adattamenti che ad esso sono stati apportati rispetto ad uno strumento (…) di tipo corrente, che gli consentono di realizzare prestazioni di alto livello, superiori a quelle normalmente richieste per usi industriali o commerciali”.

Nel caso di specie, pur se le etichette oggetto di importazione apparivano, in base agli atti di causa, atte ad essere utilizzate a fini scientifici, la Corte ha rilevato che esse non avevano caratteristiche risultanti dalla loro fabbricazione o dal loro adattamento che consentivano loro di realizzare prestazioni di alto livello superiori a quelle richieste per usi industriali o commerciali, potendo trovare un uso appropriato anche nell’ambito dell’acquacoltura o della pesca sportiva, a fini industriali o commerciali.

Già partner per oltre 12 anni in altro prestigioso studio legale tributario italiano, si occupa di diritto doganale e delle accise e di IVA, fornendo consulenza alle imprese ed assistenza innanzi alle autorità giudiziarie italiane e dell’Unione europea in caso di contenziosi.
E’ docente in corsi di formazione in materia doganale e processuale tributaria e dal 2008 al 2016 ha insegnato, quale aggiunto della materia “Legislazione e servizi in materia di dogane”, presso l’Accademia della Guardia di Finanza. Già docente a contratto di “Diritto doganale” presso alcune Università italiane, è autore di articoli, note a sentenze e monografie.