L’Agenzia delle dogane non può contestare l’origine dei prodotti importati sulla base di un’indagine a tavolino dell’Olaf, priva di riscontri sulle specifiche operazioni contestate, se la merce è scortata da un regolare certificato rilasciato dall’Autorità estera competente. A stabilirlo è la sentenza 9 giugno 2022, n. 2422, con la quale la Commissione tributaria regionale di Milano ha precisato che, dal punto di vista probatorio, l’attestazione dell’origine rappresenta uno strumento indispensabile per gli importatori.
La sentenza in commento si inserisce in un ampio dibattito giurisprudenziale, relativo a uno dei sempre più frequenti casi di applicazione dei dazi antidumping sulle importazioni di tubi di acciaio, che coinvolgono molte imprese italiane. Nel caso in esame, secondo la Dogana, i prodotti importati, dichiarati di origine indiana, avrebbero avuto invece origine cinese, con conseguente applicazione di un dazio antidumping pari al 71,9% del valore della merce.
Come rilevato dal giudice milanese, l’Agenzia delle dogane non ha però fornito nessuna prova dell’origine cinese dei beni importati, limitandosi a fondare la propria contestazione unicamente su un Report dell’Olaf, ormai noto a diverse imprese unionali che importano tubi di acciaio dall’India.
L’Olaf (Ufficio europeo per la lotta antifrode), è un organo della Commissione europea che ha il potere di svolgere, in piena indipendenza, indagini interne o esterne, nei confronti di altri Paesi terzi.
L’obiettivo dell’Organismo antifrode europeo è quello di rilevare eventuali casi di frode e corruzione o altre attività illecite, che potrebbero danneggiare gli interessi finanziari dell’Unione. Dal punto di vista doganale, assumono particolare rilievo le indagini sull’origine dei prodotti, volte ad accertare possibili elusioni o evasioni dei dazi antidumping.
Occorre tuttavia precisare che, per quanto autorevoli, tali indagini possono fondare un accertamento doganale soltanto se si riferiscono alle specifiche operazioni contestate dall’Agenzia delle dogane. È necessario pertanto verificare, caso per caso, se le conclusioni dell’Olaf siano sufficienti a giustificare una rettifica dell’origine dei prodotti importati.
Al riguardo, la Commissione tributaria regionale di Milano, con la sentenza in commento, ha precisato che l’Agenzia delle dogane non può fondare il proprio accertamento unicamente sull’esistenza di un Report dell’Olaf, essendo necessario un concreto riscontro in merito alle specifiche operazioni contestate, alle imprese, ai luoghi di produzione e ai flussi delle merci oggetto di importazione.
Tale pronuncia recepisce il già consolidato orientamento della Corte di Cassazione, che da tempo ha chiarito come il mero riferimento a un operatore estero, nell’ambito di un report Olaf, non rappresenta una prova sufficiente per contestare l’origine dei beni importati, essendo necessaria una connessione diretta tra le importazioni contestate e i prodotti oggetto dell’indagine internazionale (Cass., sez. V, 31 luglio 2020, n. 16469; Cass., sez. V, 24 luglio 2020, n. 15864; Cass., sez. V, 29 aprile 2020, n. 8337).
Occorre infatti rilevare che, poiché generalmente le conclusioni dell’Olaf si riferiscono a migliaia di operazioni e a diversi esportatori, è onere dell’Amministrazione provare che l’indagine sia direttamente riferibile proprio ai prodotti sottoposti a rettifica. È infatti necessario che ogni attività di accertamento, comprese quelle svolte da organismi internazionali di rilevante prestigio, approdi alla dimostrazione, fondata su dati oggettivi, dei presupposti alla base della revisione doganale.
Tali principi sono stati ampiamente accolti anche dalla giurisprudenza di merito che, ancora recentemente, ha chiarito che la pretesa della Dogana non può essere fondata unicamente su un Report Olaf, quando quest’ultimo non sia suffragato da nessun elemento di prova idoneo a dimostrare l’irregolarità dell’operazione contestata (Comm. trib. prov. La Spezia, 24 maggio 2022, n. 149 e 150; nello stesso senso Comm. trib. prov. La Spezia, 29 giugno 2021, n. 130).
In fattispecie assolutamente identiche a quella esaminata dalla sentenza in commento, la giurisprudenza ha inoltre precisato che l’Olaf non avrebbe dovuto limitarsi a fondare la propria indagine sull’incrocio di dati statistici generali, ma avrebbe invece dovuto tracciare il percorso seguito dai beni prima dell’importazione, attraverso i codici identificativi della merce e dei container che li trasportavano, al fine di verificare se la dichiarata origine indiana fosse compatibile con la necessaria durata dei tempi di lavorazione dei tubi e la loro permanenza in India (Comm. trib. prov. Venezia, 7 giugno 2021, n. 456 e 457).
A fronte di un Report Olaf che contiene soltanto una descrizione generale della situazione accertata, l’Agenzia delle Dogane, pertanto, dovrebbe porre in essere una puntuale e completa istruttoria per dimostrare l’origine cinese individuando, ad esempio, gli effettivi stabilimenti produttivi del fornitore.
Peraltro, occorre rilevare che, nel caso di specie, anche la Commissione europea ha avviato un’inchiesta sulle imprese indiane produttrici di tubi esaminate dall’Olaf, svolgendo una specifica attività di controllo in loco presso gli stabilimenti, per accertare le attività concretamente svolte e il livello di lavorazione del prodotto. A differenza dell’Olaf, che in tale caso non ha effettuato ispezioni presso le aziende esportatrici, la Commissione UE, a seguito di un’approfondita e attenta indagine, ha confermato l’origine indiana dei prodotti oggetto di contestazione (Reg. di esecuzione Ue n. 2017/2093).
Inoltre, nel caso esaminato dal giudice milanese, poiché per ogni operazione contestata, l’importatore ha richiesto e regolarmente ottenuto un certificato di origine non preferenziale, rilasciato dall’autorità preposta ad attestare il carattere originario dei beni (Camera di Commercio indiana), grava sull’Agenzia delle dogane l’onere di dimostrare l’origine cinese dei prodotti importati.
Com’è noto, il certificato di origine non preferenziale è rilasciato dalle autorità competenti del Paese terzo da cui sono originari i prodotti (in questo caso, dalla Camera di Commercio indiana). Come previsto dalla normativa internazionale del WCO (World Customs Organization), il certificato di origine è il documento con cui l’autorità pubblica del Paese di esportazione attesta l’origine dei prodotti esportati, secondo le norme applicabili. Tale documento deve essere redatto sulla base del formulario approvato dal legislatore europeo con tutte le indicazioni per l’identificazione della merce cui si riferiscono e sono rilasciati dalle autorità pubbliche competenti, all’esito di una specifica valutazione e prima che i prodotti siano dichiarati per l’esportazione verso il Paese terzo (all. 22-14 e art. 57, par. 3, Reg. 2447/2015).
Come previsto dalla normativa unionale, se l’Agenzia delle Dogane ha “fondati dubbi” sull’esattezza delle informazioni in esso contenute, è necessario attivare una richiesta di cooperazione amministrativa ai sensi dell’art. 59 Reg. 2447/2015, chiedendo alle autorità competenti di verificare se l’origine dichiarata sia stata stabilita correttamente.
È pertanto onere della Dogana dimostrare l’invalidità del certificato di origine non preferenziale, come riconosciuto anche dalla Corte di Giustizia (sentenza 9 marzo 2006, C-293/04, Beemsterboer Coldstore Services BV) e dalla Corte di Cassazione, la quale ha ormai stabilito che i certificati di origine hanno valore di “prova legale”. Grava pertanto sull’Agenzia delle dogane l’onere di “fornire elementi idonei ad invalidare detta prova”, qualora la ritenga non veritiera o intenda dimostrare che tali certificati di origine sono errati (Cass., sez. V, 4 luglio 2019, n. 17945).
Come rilevato anche dalla Commissione tributaria regionale di Milano, pertanto, è compito delle autorità doganali dello Stato di importazione provare che il rilascio, da parte delle autorità doganali estere, di un certificato di origine inesatto è imputabile alla presentazione inesatta dei fatti da parte dell’esportatore.
Sara Armella
Studio Armella & Associati
Laureata in Giurisprudenza nel 1993, con lode e la dignità di stampa, iscritta all’Ordine degli Avvocati di Genova dal 1996, conseguendo 300/300 all’esame finale, ha esercitato, dal 1993 al 2008, attività professionale con il prof. Victor Uckmar, per il quale ha svolto per diversi anni attività di ricerca e didattica in diritto tributario presso l’Università di Genova
Nel 2008 ha fondato lo Studio Armella & Associati, con sedi in Milano e Genova, indicato dalla rivista Forbes tra “Le 100 eccellenze del legal in Italia” e dalla rivista Top legal tra i migliori studi di diritto tributario. Lo Studio è tra i fondatori e unico membro italiano di Green lane, associazione internazionale di studi professionali indipendenti, specializzata in dogane e diritto del commercio internazionale
Membro della Commissione di esperti in materia doganale, nominata dal Vice Ministro delle finanze on.le Maurizio Leo per l’attuazione della riforma fiscale (decreto n. 99/2023)
Presidente della Commissione Dogane & trade facilitation della Sezione Italiana della International Chamber of Commerce e delegato italiano presso la Commission on Customs and trade facilitation della ICC di Parigi
Docente di diritto doganale presso Università Bocconi, Università Statale di Milano e La Sapienza di Roma in Master e Corsi post universitari, professore a contratto presso ICE