È illegittima la rettifica dell’origine doganale, se l’accertamento dell’Agenzia si fonda su un’indagine europea, apparentemente corposa e ricca di dettagli, ma senza elementi di prova concreti. A stabilirlo è la Corte di Giustizia tributaria di primo grado di Venezia, con la sentenza 6 dicembre 2024, n. 755. La Corte veneta ha chiarito che l’Agenzia delle dogane non può basare l’attività di accertamento su indagini condotte dall’Olaf che risultino prive di adeguati riscontri probatori sull’origine beni importati.
Com’è noto, l’Olaf è un organo della Commissione europea che ha la facoltà di svolgere, in piena indipendenza, indagini interne o esterne, nei confronti di altri Paesi terzi. L’obiettivo perseguito dall’Organismo antifrode europeo è quello di individuare eventuali attività illecite come casi di frode e corruzione che rappresentano una minaccia agli interessi finanziari dell’Unione. In ambito doganale, assumono particolare importanza le indagini sull’origine dei prodotti, finalizzate ad accertare possibili elusioni o evasioni dei dazi antidumping.
Per quanto autorevoli, tali indagini possono fondare un accertamento doganale, in base al principio dell’onere della prova, soltanto se si riferiscono alle specifiche operazioni contestate dall’Agenzia delle dogane. È necessario pertanto verificare, caso per caso, se le conclusioni dell’Olaf siano sufficienti a giustificare una rettifica dell’origine dei prodotti importati.
Come già riconosciuto dalla Corte di Cassazione, l’onere probatorio circa la distinta origine non può considerarsi assolto qualora l’Amministrazione doganale si limiti a richiamare un Report Olaf, se tale segnalazione non è supportata da ulteriori elementi che dimostrino l’irregolarità dell’operazione, poiché spetta all’Amministrazione finanziaria, nel quadro dei principi generali che governano l’onere della prova, dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della maggior pretesa tributaria (Cass., sez. V, 31 luglio 2020, n. 16469; Cass., sez. V, ord. 24 luglio 2020, n. 15864; Cass., sez. V, ord. 29 aprile 2020, n. 8337).
Anche la Corte di Giustizia tributaria di Venezia, con la sentenza in commento, ha concluso che è illegittima la rettifica dell’origine doganale se la riclassificazione come prodotto cinese, e la conseguente applicazione di pesanti dazi antidumping, si fonda su un’indagine Olaf priva di riferimenti al caso concreto.
Il caso esaminato dal Collegio di Venezia ha ad oggetto un report dell’Olaf relativo ai tubi senza saldatura di ferro (derivanti dalla ghisa) o di acciaio (diversi dall’acciaio inossidabile) importati dalla Thailandia. Sulla base delle conclusioni dell’Olaf, secondo la Dogana, i prodotti importati, dichiarati di origine thailandese, avrebbero avuto invece origine cinese, con conseguente applicazione di un dazio antidumping pari al 54,9% del valore della merce.
Come rilevato dalla sentenza in commento, il report Olaf si riferiva a moltissime operazioni e presentava elementi di incertezza, non sufficienti a superare le prove dell’origine fornite invece dall’importatore. I prodotti importati, infatti, erano scortati da validi e regolari certificati di origine, rilasciati dalla Camera di Commercio thailandese, che rappresentano, anche dal punto di vista giuridico, validi elementi di prova.
Secondo i giudici, l’estratto del report Olaf prodotto in giudizio dalla Dogana non conteneva riferimenti specifici alle operazioni di importazione effettuate della società.
L’indagine condotta dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode, sebbene, riferita proprio alla Società thailandese, importatrice delle merci in questione, si fondava su alcune informazioni fornite dal Centro di intelligence doganale thailandese. Quest’ultimo, tuttavia, aveva chiarito che tali informazioni non avrebbero potuto essere utilizzate “come prova in procedimenti penali”.
Il rapporto Olaf, nel caso in oggetto, costituiva l’unico elemento probatorio a fondamento della contestazione dell’origine delle merci importate.
La sentenza in commento ha confermato inoltre che, in forza della normativa unionale, i certificati di origine emessi da autorità competenti di un Paese terzo sono validi elementi di prova dell’origine dichiarata. Nei casi in cui il fornitore abbia regolarmente richiesto, dando piena garanzia dell’origine della merce da esportare, e ottenuto, all’esito positivo delle verifiche previste dalla normativa vigente, regolari certificati di origine della merce dalla Camera di Commercio, la pretesa dell’Agenzia delle dogane è stata ritenuta illegittima (Cassazione, sez. V, 29 aprile 2020, n. 8337; Cassazione, sez. V, 28 febbraio2019, nn. 5931, 5932, 5933, 5934; Corte di Giustizia tributaria di secondo grado del Veneto, 23 novembre 2022, n. 1361).
È, infatti, compito della Dogana dimostrare l’invalidità del certificato di origine non preferenziale, come chiaramente espresso dalla fondamentale sentenza della Corte di Giustizia 9 marzo 2006, C-293/04, Beemsterboer Coldstore Services BV. Secondo la Corte di Cassazione, l’onere probatorio in merito alla diversa origine non può ritenersi assolto nell’ipotesi in cui l’Amministrazione doganale si limiti a richiamare un report Olaf, se tale segnalazione non è supportata da ulteriori elementi che dimostrino l’irregolarità dell’operazione, poiché spetta all’Agenzia delle dogane dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della maggior pretesa tributaria (Cassazione, sez. V, 31 luglio 2020, n. 16469; Cassazione, sez. V, ord. 24 luglio 2020, n. 15864; Cassazione, sez. V, ord. 29 aprile 2020, n. 8337).
Secondo la giurisprudenza, pertanto, al fine di contestare l’origine documentata nel certificato estero, la Dogana deve porre in essere una puntuale e completa istruttoria per confutarne la veridicità e per dimostrare la diversa origine dello specifico prodotto oggetto di contestazione.