È illegittima la rettifica del valore doganale se l’Ufficio viola i criteri stabiliti dalla normativa dell’Unione europea. È questo il principio ribadito da due recenti sentenze della Corte di Giustizia, che individuano i limiti che l’Agenzia delle dogane deve rispettare nella rideterminazione del valore in Dogana (sentenze 9 giugno 2022, C-599/20 e C-187/21).
Com’è noto, secondo la normativa UE, il criterio primario di determinazione del prezzo è rappresentato dal valore di transazione, ossia dal prezzo stabilito e pagato dalle parti (art. 29 Reg. CEE 2913/1992, ora sostituito dall’art. 70, Reg. UE 952/2013, Cdu). L’obiettivo del Codice doganale è stabilire un sistema equo e uniforme, che escluda l’impiego di valori in Dogana arbitrari o fittizi. Il prezzo dichiarato all’importazione deve, pertanto, riflettere il costo economico reale della merce, tenendo conto degli ulteriori elementi che possono contribuire alla sua determinazione.
In ambito doganale, l’esistenza di un legame tra le parti non è, di per sé, sufficiente per considerare inattendibile il valore dei beni dichiarato in importazione. Il metodo di determinazione del valore primario rimane, infatti, quello del prezzo, purché la relazione tra le parti non lo abbia influenzato.
Al riguardo, i giudici europei hanno chiarito che lo stretto legame fiduciario tra importatore e fornitore non è sufficiente per ritenere inattendibile il prezzo dichiarato in Dogana, in assenza di una connessione qualificata tra il fornitore estero e l’acquirente europeo. L’Agenzia delle dogane, infatti, non può semplicemente presumere che un rapporto di lunga durata e l’assenza di un contratto di vendita siano idonei a integrare una forma di “controllo” sul fornitore (sentenza 9 giugno 2022, C-599/20).
In particolare, la Corte di Giustizia ha chiarito che poiché il prezzo di transazione rappresenta il criterio prioritario di determinazione del valore doganale, eventuali altri parametri di valutazione devono essere interpretati restrittivamente. Le situazioni che configurano l’esistenza di un controllo, individuate dall’art. 143, Reg. CEE 2454/1993 (ora confluito nell’art. 127, Reg. UE 2447/2015), devono pertanto essere applicate letteralmente, non potendo estendersi anche a fattispecie analoghe.
Il Codice doganale fornisce una vera e propria definizione di “legame” tra parti correlate, individuando le situazioni in presenza delle quali si ipotizza una convergenza di interessi, finalizzata a una dichiarazione errata del valore della merce.
In primo luogo, si considerano “legate” due o più persone che rivestono la qualifica giuridica di associati (art. 143, Reg. CEE 2454/1993, ora art. 127, Reg. UE 2447/2015). La nozione di legame ricomprende anche la situazione in cui una persona controlla direttamente o indirettamente l’altra o l’ipotesi in cui entrambe sono direttamente o indirettamente controllate da una terza persona. Tale legame non può tuttavia configurarsi in presenza di un’associazione di fatto, ossia quando il venditore e il fornitore siano semplicemente legati da un rapporto commerciale di lunga durata. Al riguardo, il giudice europeo ha chiarito che l’esistenza di un tale legame si realizza solo se tra le parti vi è un’associazione di diritto, ossia quando compratore e venditore sono vincolati da un documento che consenta di accertarne la relazione.
In secondo luogo, potrebbe ipotizzarsi la presenza di un legame quando l’acquirente esercita un controllo di fatto sul fornitore extra-UE, ossia un potere di costrizione o di orientamento su tale soggetto. I giudici europei hanno, tuttavia, escluso anche l’esistenza di tale controllo di fatto, riconoscendo che i solidi rapporti commerciali con il fornitore non sono sufficienti per configurare un legame qualificato, idoneo a consentire una rettifica del valore.
Con la seconda sentenza in commento, resa nella causa C-187/21, la Corte di Giustizia ha chiarito che l’Agenzia delle dogane, in sede di contestazione del valore, è tenuta a garantire all’operatore un contraddittorio effettivo e ad assicurare il rispetto dei criteri previsti dal Codice doganale unionale.
Il Codice doganale, infatti, impone all’Agenzia delle dogane un preciso onere procedimentale per superare il prezzo indicato dall’operatore nei documenti allegati alla dichiarazione doganale. In particolare, in caso di fondati dubbi sulla correttezza del valore dichiarato dall’importatore, l’Agenzia delle dogane può rideterminare il prezzo della merce soltanto nel caso in cui nutra motivati e fondati dubbi sulla correttezza del corrispettivo indicato e dopo aver avviato un contraddittorio preventivo con l’operatore (art. 181 bis Reg. CEE 2454/1993, ora sostituito dall’art. 140 Reg. UE 2447/2015). La normativa unionale prevede, inoltre, che se la Dogana è in grado di dimostrare che il prezzo di transazione della merce non è attenibile, deve utilizzare i criteri sussidiari di stima dei beni importati individuati dalla normativa doganale.
Sul punto, occorre precisare che la rettifica del valore deve rispettare non soltanto i criteri di determinazione previsti dal Codice doganale, ma anche il loro ordine di applicazione. È infatti onere della Dogana dimostrare di aver applicato, in sede di rettifica, i metodi immediatamente sussidiari stabiliti dal Codice doganale, secondo la rigida sequenza prevista, dovendo eventualmente dar conto delle ragioni per cui l’applicazione dei precedenti criteri non sia stata possibile (Cass., sez. V, 16 maggio 2022, n. 15540).
L’Agenzia delle dogane, pertanto, deve fare ricorso, in primo luogo, al criterio immediatamente sussidiario rispetto a quello del prezzo di transazione, ossia il valore di merci “identiche” e, soltanto in un secondo momento, può ricorrere al valore medio di prodotti “similari”, dimostrando per quale ragione non è stato possibile rispettare la precisa sequenza dei metodi individuati dal Codice doganale.
Generalmente, per individuare il valore di beni simili a quelli importati, l’Ufficio si affida a banche dati a uso interno, che non sono liberamente accessibili agli operatori. Al riguardo, la Corte di Giustizia ha chiarito che la Dogana non è obbligata a consultare anche database dell’Unione europea, quando i dati estrapolati dalla banca dati nazionale utilizzata dall’Agenzia siano già di per sé sufficienti per ottenere le informazioni relative al valore. Diversamente, l’Ufficio potrebbe rivolgersi alle autorità di un Paese terzo per ottenere dati supplementari ai fini della determinazione del valore di transazione di prodotti simili.
Stefano Comisi
Tatiana Salvi
Studio Armella & Associati
Laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Genova, ha frequentato il corso di perfezionamento in Diritto Tributario presso l’Università di Genova e il Master in Diritto Tributario presso l’Università Cattolica di Milano.
Iscritto all’Ordine degli Avvocati di Genova, dopo una lunga esperienza presso un noto studio legale specializzato in fiscalità indiretta, dal 2019 entra a far parte del team dello Studio Armella & Associati.
È autore di numerosi articoli e svolge attività di docenza in seminari e corsi di formazione in materia tributaria.
È membro del gruppo di lavoro Accise della Sezione Italiana della International Chamber of Commerce.