L’indicazione del marchio “Italy” sui prodotti importati di origine estera costituisce un comportamento penalmente rilevante, punito dall’art. 517 del codice penale, rappresentando una falsa indicazione dell’origine delle merci, in grado di trarre in inganno i consumatori. Al contrario, la semplice apposizione di un nome italiano sui beni, in assenza di evidenti indicazioni sull’origine cinese, comporta esclusivamente una violazione amministrativa, punita con una sanzione compresa tra un minimo edittale di 10.000 euro e un massimo di 250.000 euro. È questo il principio espresso dalle recenti sentenze della Corte di Cassazione, sez. I civile, 23 giugno 2022, n. 20226 e sez. III penale, 21 giugno 2022, n. 23850, con le quali la Suprema Corte ha precisato il differente ambito di applicazione tra le violazioni delle regole del “made in Italy”, distinguendo le ipotesi penalmente rilevanti da quelle che implicano una semplice violazione amministrativa.
La tutela del Made in, intesa come protezione delle eccellenze nazionali in determinati settori produttivi, è regolata, a livello internazionale, dall’Accordo di Madrid mentre, sotto un profilo nazionale, trova la sua norma di riferimento nella legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Finanziaria 2004), all’art. 4, commi da 49 a 49-quater.
L’articolo 4, comma 49, l. 350 del 2003, in particolare, punisce la condotta di falsa indicazione di origine, ove sia indebitamente utilizzata la specifica espressione Made in Italy (si veda, sul tema, Il doganalista, n. 2/2014) con il fine di trarre in inganno i consumatori italiani in merito all’origine della merce.
Tale disposizione prevede l’inclusione della fallace indicazione dell’origine italiana dei prodotti tra le fattispecie penalmente rilevanti, punite dall’art. 517 del codice penale (“vendita di prodotti industriali con segni mendaci”), passibili di reclusione sino a due anni e di una multa sino a ventimila euro.
Il medesimo articolo 4, al comma 49 bis della l. 24 dicembre 2003, n. 350 prevede, invece, una sanzione amministrativa compresa tra un minimo edittale di 10.000 euro e un massimo di 250.000 euro, in caso di imprecisa indicazione nell’uso del marchio da parte del titolare o del licenziatario, con modalità tali da indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana, in assenza di indicazioni chiare ed evidenti sulla provenienza estera della merce.
È in tale quadro normativo che si inseriscono le due recenti pronunce della Suprema Corte, le quali hanno chiarito i diversi presupposti tra le violazioni penali e quelle amministrative in materia di “Made in Italy”.
Come riconosciuto dalla Cassazione penale nella sentenza 21 giugno 2022, n. 23850, infatti, l’indicazione della scritta “Italy” sulla merce importata, in assenza di ogni altra indicazione sulla corretta origine doganale dei prodotti, rappresenta un comportamento penalmente rilevante, punito ai sensi dell’art. 517 del codice penale.
Come riconosciuto dalla Suprema Corte, rientrano tra le fattispecie sanzionate penalmente la diretta stampa del marchio “made in Italy” su prodotti non originari nel territorio nazionale ai sensi della normativa doganale europea in materia di origine non preferenziale.
Rappresenta una violazione penale anche la presentazione di etichette fuorvianti, come le indicazioni di formule quali “100% Italia” “tutto italiano” o “full made in Italy”. La Corte di Cassazione ha, tuttavia, riconosciuto che anche il semplice uso di segni, figure o marchi che inducano il consumatore a ritenere la provenienza italiana del prodotto, in assenza di ogni altra indicazione dell’origine è un comportamento punito dall’art. 517 del codice penale.
Nel caso esaminato dalla Cassazione penale, in particolare, la questione verteva sull’importazione di alcune barre di metallo, provenienti dalla Turchia, le quali presentavano chiaramente l’indicazione “Italy” sulla superficie, senza nessun’altra precisazione in merito alla corretta origine delle merci.
I giudici di legittimità hanno, pertanto, ritenuto tale fattispecie punibile ai sensi dell’art. 4, comma 49, l. 350 del 2003, visto l’ingannevole richiamo alla produzione dei beni in Italia, senza nessuna ulteriore indicazione in merito all’effettiva origine doganale dei prodotti (nel medesimo senso, Cass. penale, sez. III, 23 settembre 2013, n. 39093; Cass. penale, sez. III, 9 febbraio 2010, n. 19746).
La Corte di Cassazione ha, in particolare, ribadito l’irrilevanza dell’assenza della dicitura “made in”, giacché il semplice richiamo all’Italia, inciso sulla superficie delle merci, è sufficiente a configurare un comportamento mirato esclusivamente a trarre in inganno i consumatori, con la conseguente contestazione del reato di cui all’art. 517 del codice penale.
Occorre, invero, evidenziare come tale pronuncia si collochi in un quadro giurisprudenziale ormai consolidato, che riconosce chiaramente l’importanza dirimente della volontarietà del comportamento, nella valutazione in merito alla possibile rilevanza penale (da ultimo Cass. penale, sez. III, 14 gennaio 2021, n. 1298).
Al contrario, nella sentenza della Cassazione civile, sez. I, 23 giugno 2022, n. 20226, sono state specificate le circostanze in base alle quali è possibile contestare esclusivamente la violazione amministrativa della fallace indicazione dell’origine, (art. 4, comma 49 bis, l. 24 dicembre 2003, n. 350).
Nel caso oggetto del giudizio civile, alcune calzature di origine cinese erano state commercializzate apponendo un marchio di chiara origine italiana (consistente in un nome e cognome di persona fisica italiana, simbolo registrato nel Regno Unito), indicando la dicitura “made in China” esclusivamente in una parte poco visibile dei prodotti (in particolare, nella tomaia).
In tale ipotesi, pertanto, sebbene il semplice marchio di commercializzazione dei beni potesse ritenere sussistente la provenienza italiana delle merci, era in ogni caso presente un’indicazione della corretta origine cinese.
La Suprema Corte ha, tuttavia, riconosciuto che tale dicitura fosse stata presentata con una minore visibilità, non potendo qualificarsi come un evidente riferimento della corretta origine dei beni. Da ciò consegue che l’apposizione di un marchio aziendale con un nome italiano nelle confezioni delle merci, pur in assenza di ogni riferimento esplicito all’Italia, può in ogni caso rappresentare una condotta idonea a trarre in inganno il consumatore in merito all’esatta origine geografica del prodotto.
La sanzione amministrativa in tema di “made in Italy” colpisce, invero, esclusivamente la mancata osservanza dell’obbligo di accompagnare i prodotti con indicazioni sufficienti a evitare qualsiasi errore incolpevole del consumatore sull’effettiva origine del prodotto, ipotesi ritenuta sussistente nel caso oggetto della Cassazione civile, e non l’ingannevole richiamo alla produzione in Italia dei prodotti importati, punito, invece, dall’art. 517 del codice penale.
Massimo Monosi
Studio Armella & Associati
Laureato presso l’Università di Parma, ha conseguito un Master in Diritto Tributario e un Master di specializzazione dall’accertamento al processo tributario presso la Scuola di Formazione Ipsoa. È iscritto all’Ordine degli Avvocati di Milano dal 2009. Nel 2011 entra nel team dello Studio Armella & Associati, di cui è socio dal gennaio 2020.
Settori di attività: contenzioso doganale, diritto tributario e commercio internazionale. Esperto di diritto doganale, con particolare riferimento alle tecniche di commercio internazionale, assiste grandi aziende e multinazionali con particolare riferimento alla consulenza e alla pianificazione doganale, all’implementazione delle procedure relative al commercio internazionale e alle certificazioni AEO.
È autore di numerosi articoli e pubblicazioni e collabora con associazioni di categoria in attività seminariali e congressuali.